Category: Palermo ieri, oggi e domani



Questo slideshow richiede JavaScript.


Questo slideshow richiede JavaScript.


Questo slideshow richiede JavaScript.


Questo slideshow richiede JavaScript.


Il Bastione di San Vito

 

E’ l’unico bastione esistente delle mura che chiudevano la parte settentrionale della città; chiamato anche Bastione Gonzaga in quanto fatto costruire attorno al 1537 dal vicerè Ferdinando Gonzaga.

Lo si trova in via Volturno accanto la sede dell’AMAP ed è poco visibile dalla strada.

Uno stretto vicolo, divideva il Bastione dal monastero di S. Maria di tutte le Grazie, conosciuto anche come S. Vito, che era di proprietà delle francescane di Terz’Ordine, che fu costruito nel terzo decennio del 1600 aggregandolo alla già esistente chiesa di S. Vito, sede della congregazione che porta lo stesso nome. In cambio della chiesa fu costruito, quasi di fronte, un oratorio.

Le religiose, per unire la loro casa al bastione costruirono un sovrappassaggio.

Il monastero contribuì, inoltre, alla costruzione di porta Carini, che per essere posta in linea con gli edifici che nel frattempo erano sorti addossati al paramento esterno delle mura, creando l’attuale via Volturno, fu spostata più in avanti.

Il bastione fu trasformato in giardino (il primo orto botanico di Palermo) ed aveva un porticato che ne copriva l’intero perimetro, con un piccolo padiglione che si trovava all’imboccatura del sovrapassaggio.

Dopo la metà del 1800, quando vennero eliminati gli ordini religiosi, il monastero di S. Vito venne acquisito dal demanio statale che lo trasformò in caserma ed il giardino venne completamente abbandonato.

Ancora oggi il monastero è sede del Nucleo Investigativo dei Carabinieri.

Il bastione passò a privati che hanno creato una passerella in ferro per poterlo raggiungere da un vicino edificio.

Il giardino, ancora esistente, è oggi incolto ed abbandonato e l’unica struttura esistente è il piccolo padiglione, in stile ottocentesco.


La città di Palermo che oggi conosciamo è passata attraverso la distruzione di palazzi, chiese e ville che un tempo ne erano l’orgoglio.

Tralascio per ora lo scempio che è stato fatto in via Libertà per la costruzione di palazzoni che ne hanno deturpato l’aspetto originario.

Mi soffermerò invece sul patrimonio che è andato perduto per la costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele e per la realizzazione di via Roma.

Per la costruzione del Teatro Massimo, che copre un’area di circa 7.700 metri quadrati, vennero abbattuti quattro chiese, due monasteri ed una delle porte storiche della città; scomparvero;

Chiesa e il Monastero delle Stimmate di San Francesco;

Chiesa e il Monastero delle Vergini Teatine dell’Immacolata Concezione;

Chiesa di Santa Marta;

Chiesa di Sant’Agata di Scorrugi delle Mura;

Porta Maqueda.

Per la realizzazione di via Roma, chiaramente, la distruzione interessò un’area molto più vasta e interessò chiese, palazzi e interi rioni che ne avevano caratterizzato nel tempo la storia.

Il primo ad essere distrutto, nel 1895, fu il rione Conceria con le seguenti costruzioni:

Chiesa di S. Margherita;

Chiesa di S. Angelo Carmelitano;

Oratorio di Gesù e Maria;

Palazzo Tramontana (parziale, poi ripristinato);

Palazzo Avarna (parziale).

Per costruire il tratto compreso tra piazza S. Domenico e via Torre di Gotto, nel 1906, vennero distrutti:

Palazzo Montalbano;

Casa Traetta (parziale);

Nello stesso anno, nel tratto compreso tra via Bara e via Cavour, vennero distrutte le mura dell’Itria.

Nel 1907, per la costruzione di palazzo Bonomolo, venne espropriato il giardino Pignatelli e parzialmente demolito il Museo Nazionale.

Tra il 1917 e il 1919, a seguito della realizzazione del tratto compreso tra via Vittorio Emanuele e via Divisi, nel quartiere Stazzone venne distrutto Palazzo Ajroldi.

Tra il 1919 e il 1921, nel tratto compreso tra via Schioppettieri e via Vittorio Emanuele, vennero distrutti, per consentire anche la costruzione di Palazzo Coffaro e del Teatro Finocchiaro:

Chiesa e Convento di San Giovanni Evangelista dei Minoriti;

Chiesa di Nostra Signora della Purificazione dei Gallinari;

Chiesa di Santa Maria alli Schioppettieri.

Nel 1920 iniziarono le demolizioni dei rioni Stazzone, S. Rosalia, Giardinaccio e Mura dello Stazzone che consentirono la costruzione dei Palazzi Rutelli, Traina, Bonci-Rutelli, Frisella-Vella, Pino Ingraiti, Scorsato e Savona, vennero distrutti:

Oratorio di Santa Spina;

Chiesa, Convento e Oratorio di S. Rosalia;

Chiesa di Santa Maria di Montesanto;

Chiesa di S. Vincenzo Ferreri dei Confettieri;

Palazzo Bonanno di Linguaglossa;

Palazzo Di Napoli di Buonfornello;

Palazzo Settimo di Fitalia di Giarratana;

Palazzo Platamone-Achates-Giarratana;

Palazzo Duca di Sorrentino.

Nel 1928 per la costruzione del Palazzo delle Poste venne distrutto Palazzo Monteleone.

Nel 1932, per la costruzione del lato sinistro dell’ingresso monumentale, fu demolita la chiesa della Madonna di Visita Poveri.

Tra il 1958 ed il 1959, per la costruzione del Palazzo ex Standa, furono demoliti:

I resti dell’Ospedaletto, distrutto dai bombardamenti del 1943;

Palazzo Pintacuda;

Palazzo Guglielmini Carcione;

Palazzo Scribani.

Dal 1971 al 1978, per la costruzione del Palazzo ex Upim, vennero distrutti:

Palazzo Bonomolo e Traetta;

Palazzo Russo-Radicella;

Palazzo Gandolfo S. Giuseppe;

Palazzo Ammirata.


Porta Bab as-sifa’

La Bab as-s ifa’ (“Porta della salute” o “dell’acqua salutare ”), la seconda porta citata da Ibn Hawqal, era stata aperta, poiché la popolazione lamentava la lontananza di un’uscita, da Abu ‘l-Husayn Ahmad ibn al-Hasan (954-969), su una cresta che dominava un fiume (il Ruta-Papireto) ed una sorgente detta appunto ‘Ayn sifa’.

Nei pressi di questa “sorgente salutare” – che formò per secoli una peschiera nel basso di quel che sarebbe stato il Monastero delle Vergini dal lato della Piazza Nuova (già vecchia Piazza della Conceria, presso la non più esistente chiesa di Santa Margherita) – era, già nella seconda metà del X secolo, una scuola coranica annessa a una moschea, presso la quale, nel 1175, sarebbe stato curato un illustre e pio viaggiatore musulmano, al-Harawi (m. 1215).

Porta Oscura

Il sito di questa porta che sarebbe poi stata detta Porta Oscura è ancora facilmente individuabile in corrispondenza di un vicolo, oggi chiuso e trasformato in cortile, che congiungeva l’attuale via Venezia, già piazza Conceria, con l’attuale salita Castellana.

Il vicolo è riconoscibile grazie ad una discontinuità nel disegno delle facciate dei palazzi prospicienti sulle suddette strade.

In particolare, lungo la salita Castellana, in prossimità della parte terminale sinistra dell’omonimo palazzo, si trova un arco con una saracinesca verde e la vecchia insegna della pasticceria Valenti: questo era l’arco che apriva l’accesso superiore al vicolo.

Dal lato di via Venezia, il vicolo è invece individuabile da tre archi sovrapposti, in parte tompagnati, posti al di sopra di un locale adibito a pescheria e alla cui destra si apre una stretta porticina che dà accesso al cortile interno.

Una volta entrati nel cortile ci si ritrova in una specie di tunnel (non per niente Porta Oscura), costituito da una serie di archi posti in successione; il vicolo, oggi cortile, è su un piano inclinato i cui salti di quota (dovuti alla differenza di altezza tra il Cassaro e la Conceria) vengono superati grazie a scalinate alternate a piani orizzontali che finiscono in corrispondenza di un muro che tompagna un arco; dato l’allineamento con il probabile percorso delle mura, quest’arco, o quello immediatamente precedente al cortile (entrando da via Venezia), dovrebbe corrispondere all’antica porta della città.

A proposito di questo cortile, data la notevole importanza storica che ricopre, sarebbe opportuno che ne venisse riaffermata l’originaria proprietà pubblica, sia nel caso sia stata realmente ceduta a privati, sia che sia stata da questi occupata nei secoli passati senza alcun diritto; per la cronaca, il vicolo, come mostrano le cartografie, risulta aperto fino al 1759 e appare già chiuso e trasformato in cortile nella cartografia del 1822.


Porta Bab al-Ruta

La Bab al-Ruta, che assieme alla porta nominata da Ibn Hawqal col nome di Santagat era una delle porte preesistenti al periodo arabo, dava accesso al grande corso d’acqua omonimo, alimentato dalle acque di Danisinni.

La porta dovette continuare a funzionare anche durante il periodo normanno, tanto che risulta nominata nel 1194 in un documento conservato presso la Biblioteca Comunale di Palermo (Ms. Qq. H. 10), col quale Aloisa e Goffredo de Marturano concedono al monastero da loro edificato una “vineam et cannetum cum fonte aquarum defluentem quae sunt in praedicta civitate Panormi extra Portam Rotae secus viam quae ducit ad castrum Xixae“.

La strada vicina alla Porta Rota, che in epoca normanna condurrà al palazzo della Zisa, dovrebbe corrispondere all’attuale via Colonna Rotta (da ‘ayn Ruta), mentre una fonte ampliata con un abbeveratoio esisteva ancora nell’Ottocento, e le stampe coeve lo dimostrano, nella vallata (oggi interrata) ad occidente dell’attuale corso Alberto Amedeo (al di sotto dell’attuale campo sportivo).

Ai tempi di Fazello (1498-1570) questa porta risultava chiusa anche se aveva dato il proprio nome alle mura limitrofe (“porta erat ad haec Urbis moenia a Rota, olim vocata, quae hodie clausa licet nomen amiserit, moenibus tamen nomen dedit, quae Rotae appellationem adhuc habent”).

Nel 1576, secondo quanto riporta Di Giovanni (I, p. 23 e n. 3), Martines (B.C.P. Ms. Qq. F. 10, p. 231) la vide chiusa ma integra “ad latus amplae turris sinistrum” e pochi anni più tardi, nel 1583, Pugnatore ritenne che un’antica porta fosse esistita “poco più a ponente dalla chiesa di San Giacomo la Mazara, […] tra essa chiesa e l’angolo delle pubbliche mura di quel tempo primiero, si come in fin hoggi vene appare manifesti vestigi” (Di Giovanni, L’Antichità della felice città di Palermo in “Nuove Effemeridi Siciliane”, 1881, Serie III, vol. XI, pp. 127-28 e Topografia antica di Palermo, vol. I, p. 33, n. 1).

Anche se ormai chiusa, ancora alla fine del Cinquecento la porta veniva rappresentata nella cartografia del tempo (Florimi, Bonifazio, Cartari, Braun- ogenberg), posta sul fronte occidentale delle mura, allo sbocco di un vicolo che proveniva dalla cattedrale e alla sinistra (guardando dall’esterno) di una discontinuità delle mura (forse un arretramento funzionale alla difesa della stessa porta). Una possibile prova del fatto che alla fine del Cinquecento la porta fosse chiusa è data proprio dalle suddette cartografie, nelle quali su ogni porta urbica allora in funzione è posto un numero relativo alla leggenda, mentre su Porta Rota e sulla trecentesca Porta Nova (tra il bastione di San Giorgio e quello che fu poi detto di Maqueda) non esiste alcun numero, probabilmente perché ancora visibili e quindi degne di essere inserite nella rappresentazione, ma non più utili al passaggio e quindi non così necessarie da essere inserite in legenda.

Nel 1596 Di Lello, nella sua Historia della Chiesa di Monreale (p. 16 del Sommario dei Privilegi), scriveva: “Porta Rota era una delle porte di Palermo, hoggi è chiusa, et era sotto al Collegio de’ Canonici della Congregatione di S. Giorgio in Alga, chiamati in quella città di S. Giacomo della Màzzara, come n’apparisce anchora qualche segno” (Di Giovanni, I, p. 32).

Sempre secondo quanto riporta Di Giovanni (I, p. 32) Giardina vide ancora ai suoi tempi alcuni resti che così descrisse nel 1632: “usando io qualche special diligenza per rinvenire vestigio di questa porta, secondo quel sito che le descrisse Fazello, trovo in un muro immediatamente contiguo al Quartiere de’ soldati alla parte occidentale al di fuori della città, un chiarissimo vestigio di Porta, quale se fosse aperta corrisponderebbe in un luogo fra la chiesa di S. Giacomo la Mazara e del fiume Papireto, lasciando questa alla destra, questo alla sinistra; e probabilmente credo essere quello stesso vestigio di Porta che Giov. Francesco Pugnatore scrisse aver veduto poco più a ponente della chiesa di San Giacomo della Mazara, fra questa chiesa e l’angolo stesso delle pubbliche mura” (Giardina, Le Porte distrutte, pp. 16-17).

Porta Santagat

La Porta indicata da Ibn Hawqal col nome di Santagat era posta ad ovest della chiesa di S. Agata alla Guilla, probabilmente in corrispondenza del punto in cui l’attuale via Sant’Agata alla Guilla incrocia la Strada del Celso per poi continuare verso l’esterno in direzione del Capo. Assieme alla Bab al-Ruta era una delle porte che si aprivano sul fronte del circuito murario già in epoca prearaba.


Porta Bab al-abna’

La menzione delle porte, fatta dal viaggiatore mesopotamico forse secondo una successione sistematica scandita in senso antiorario, farebbe ritenere che la porta citata subito dopo la Bab ar-riyad, la Bab al-abna’ o “degli Edifici”, si aprisse nel tratto ad ovest della cinta muraria, verso sud, o addirittura nel lato sud, lungo il Kemonia, a sud-ovest.

Questa porta, che Ibn Hawqal definisce “la più antica della città”, ha un toponimo il cui significato, “degli edifici”, intendendo abna’ come forma dialettale per abniya, plurale di bina’, piuttosto che “dei giovanotti” o “delle notizie”, secondo quanto inteso fino ad oggi sulla scorta dell’Amari e del Di Giovanni, lascia supporre l’esistenza di “edifici” di remota fondazione.

A sostegno dell’ipotesi di un’ubicazione della porta nel lato sud (a sud-ovest) della cinta muraria potrebbe essere anche il tragitto compiuto da Ibn Gubayr che vede lungo il proprio passaggio all’interno della Galka (prima di essere immesso in città attraverso la Via Coperta) un edificio che potrebbe essere identificato con l’Aula viridis (BAS tr., I, pp. 155 ss.).

Se quest’ipotesi fosse corretta saremmo in presenza del nome arabo della Porta Aedificiorum di cui si ha notizia in un documento edito da S. Morso (Descrizione di Palermo antico ricavata sugli autori sincroni e i Monumenti del tempo, pp. 356-359) nel quale testo arabo si legge Bab al-abna’, reso in latino appunto con Porta Aedificiorum (pp. 358 ss.).

R. Camerata Scovazzo identifica i resti di questa porta con quelli rinvenuti negli scavi sotto le Sale del Duca di Montalto del Palazzo Reale (Delle antiche cinte  murarie di Palermo e di altri rinvenimenti archeologici effettuati tra il 1984 ed il 1986, in AA.VV., Panormus II, Palermo 1990, pp. 95-104: esattamente pp. 99 ss. Si veda però, più avanti, pp. 138-139 e relativa nota).

Porta Bab ar-riyad

La Bab ar-riyad (“dei giardini”, forse quelli esterni del Mu’askar) aveva sostituito, per volontà del kalbita Abu ‘l-Husayn Ahmad ibn al-Hasan (954- 69), o meglio del suo califfo al-Mu’izz, la vicinissima Bab ibn Qurhub.

L’ubicazione della Porta dei Giardini è problematica: se attribuiamo ad Ibn Hawqal una sistematicità nell’elenco prodotto, essa dovrebbe precedere la Bab al-abna’ nel circuito antiorario.

Di Giovanni (I, p. 29) suppone che la Porta dei Giardini fosse collocata “nella muraglia allora sovrastante alla Piazza Grande oggi detta de’ Tedeschi” e che nel secolo XIV era il plano della Porta Palatii. Schubring (Topografia Storica di Panormus, in Panormus I, pp. 3-158) l’ubicava, invece, ove adesso sorge la Porta Nuova, o presso l’angolo meridionale del Palazzo Arcivescovile all’ingresso dalla Piazza della Vittoria in corso Vittorio Emanuele, cioè dove finiva la Galka e proseguiva la via Marmorea o simat.


Porta Bab al-hadid

 La Bab al-hadid (“del ferro” o “di ferro”?) conduceva nell’Harat al-Yahud, ossia al “quartiere degli Ebrei”.

La Bab al-hadid forse coincideva con quella che fu più tardi denominata Porta Judaica, che aveva di fronte la via de’ ferrai o Ferraria (conosciuta poi come via dei Calderai) e che era situata ad un “tiro di pietra” dalla Curia Pretoria (descrizione del Fazello), e che quindi doveva trovarsi in prossimità dello sbocco dell’attuale via P. Omodei su Via dell’Università, pressoché corrispondente, come allineamento, all’ingresso laterale della Facoltà di Giurisprudenza.

Ai tempi del Fazello (1498-1570), della Porta Judaica era ancora visibile un semiarco assieme alla torre che la difendeva, quest’ultima ormai inglobata all’interno della casa di un certo Nicola Giafaglione.

 

Porta Bab al-sudan

 La Bab al-sudan (“dei Negri”) si trovava di fronte ai Haddadin, ossia alla strada o contrada dei “fabbri”. L’argomento dell’ubicazione della porta, detta in seguito porta Busaudan, Sautin, Busuldeni, Busuemi, Busué (con verosimile riferimento al luogo di stanziamento dei Negri), e della relativa torre venne più volte affrontato da Di Giovanni (I, pp. 42 ss.; II, pp. 111 ss.; pp. 121 ss.), che considerava la torre del Palazzo Conte Federico parte superstite del complesso difensivo della porta. B. Lagumina, in polemica col suddetto studioso e sulla base di nuovi documenti (Nuovi documenti sulla porta araba Bab as-Sudan, in Note sicule orientali, in “Archivio Storico Siciliano”, n.s., VIII, Palermo 1884, pp. 193-203), situò invece la porta assieme alla relativa torre, all’angolo di Via dei Biscottari, sostenendo che la porta e la torre di Busuemi “furono interamente comprese nell’edifizio dell’Ospedale dei Benfratelli” (p. 198).

In età normanna la strada che collegava la Bab al-abna’ e la Bab al-Sudan era intersecata da uno zuqaq, una piccola strada, che la congiungeva col simat in direzione nord (S. Cusa, I, p. 62, anno 1137). Sempre Lagumina (ibidem, p. 194) ricorda anche un documento che attestava l’esistenza di un toponimo legato allo stanziamento dei Negri fino alla metà del XVI secolo (Notaio Antonino Galasso, 14 giugno VII Indizione 1549): “edificium morum nigrorum in quarterio albergarie, in contrata hospitalis“.

Non è stato possibile approntare un’analisi dettagliata dei documenti relativi alla porta e al complesso difensivo che la affiancava; analisi che comunque non avrebbe potuto prescindere dallo studio dei risultati (scarsamente pubblicizzati) degli scavi archeologici condotti dalla Sovrintendenza nel secondo dopoguerra.