Category: Storia


Commovente


IL REPORTAGE. Il racconto di Titti e Hadengai
due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto

Un anno, 4 mesi e 21 giorni
viaggio dalla morte all’Italia

di EZIO MAURO

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all'Italia

PALERMO –
Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo
piano dell’ospedale "Cervello". Un tavolino con quattro sedie, due
donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta
le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte
Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la
televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi.
Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è
una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la
corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti,
con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione,
una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo
divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e
la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani
uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78
disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21
giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine
a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di
fame e di terrore.


Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani,
prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la
civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si
fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al
registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina,
i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della
democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri
arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità,
potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.


Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano,
da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una
fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col
telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella
suoneria, con "L’Aurora". In più, a casa la madre conservava da anni
una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli
alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in
Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando
la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento
obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E
dove, se no?

 Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice.
Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da
casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una
bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque
sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un
vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan.
Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando,
e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni.
Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle
pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente
i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i
mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e
quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso,
dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa
della barca illegale, quindi il viaggio finale.


Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul
camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più
riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre
col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le
altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della
frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion,
temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti,
li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi,
disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari
isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti,
cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano
male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è
pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne
di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che
abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve
dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi
urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando
arriva al money transfer, da qualche parte sicura.


Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra
che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto,
non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni
razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca?
Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che
avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i
soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La
barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci,
dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque
donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina
sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno
in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto,
nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in
fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha
la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco
perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita
solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle
nero. Nient’altro.


"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai
aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del
secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate,
la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina.
Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante
d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle
onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno
consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la
testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti
pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un
pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno
chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.


La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe,
con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno
può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede
più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La
quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse
la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma?
Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.


All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno
attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e
fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la
disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e
dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa
insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: "Giù, giù, vai
in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi cambiano.


Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da
ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della
sete. "Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai"
nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di
sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si
danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per
lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo
il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono
più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E’ arrivato
– dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due
giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli
tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna
canta una nenia sottovoce.


Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi:
"Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai
liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il
ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha
paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li
risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un
cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte, comincia a
dominare tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare,
"bahari". Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della
fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti
di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief
leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i
compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.


Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre,
quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i
primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non
sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto
insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha
l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare
bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno
aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina,
per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma
possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di
notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi,
lo sta facendo.


Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra
piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi,
si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A
Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico
cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i
soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa
con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la
nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si
alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li
ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci
sono più.


L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne,
scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li
metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i
cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù
anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi
dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e
non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare,
non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in
barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche
se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella
casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno
perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la
pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade
addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando
svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno
lasciato spazio ai vivi.


Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei
che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone
mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado.
Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando
muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a
morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che
ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno
arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa
dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che
dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi
solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento,
non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti
andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa
l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio
per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si
separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la
morte, "Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre
accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua
lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.


Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e
li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma
quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno
paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non
lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica,
ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo
afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col
braccio una direzione.


Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane.
Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane
taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il
dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare
più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo
vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco
un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’
un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini
bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far
ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li
deve seguire.


Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno
salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da
solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto
è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le
buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi
è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero,
basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese,
gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale,
dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi
sul soffitto e sul muro bianco e blu.


Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua.
Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a
sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano
e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che
hanno perso l’altro naufrago ricoverato al "Cervello", Hadengai, in
camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è
presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa
dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle
labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e
sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del
camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano
qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire
a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire
morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non
ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire,
può solo aspettare.

Poi si apre la porta, e
arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta
bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge
piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di
tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza
capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative
in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che
distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento.
Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto
della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in
là.


I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con
patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei
taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea
di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima
o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a
loro, c’è scritto "la vita è un bene prezioso".

Repubblica.it (26 agosto 2009)

Pino


il pino

 
A volte una foto, una cartolina o una immagine nascondono  particolari che,  sebbene non evidenti, se guardati con altro occhio fanno scoprire anche piccoli scampoli di storia.
Questa cartolina, che raffigura Via Roma ed i relativi lavori per la realizzazione del prolungamento oltre l’attuale palazzo delle Poste, nasconde una piccola storia, poco conosciuta ai più, ma di grande significato per gli abitanti di allora.
Questa è la storia di Pino, non una persona, ma un albero, un pino appunto, che sorgeva nel giardino di Palazzo Monteleone.
Per far sì che il prolungamento di via Roma potesse essere definito, il piano urbanistico prevedeva l’abbattimento del palazzo e la distruzione di tutto il giardino antistante.
E proprio nel giardino vi era un gigantesco pino secolare che sarebbe venuto a trovarsi esattamente al centro della costruenda carreggiata del nuovo asse stradale.
Per salvare l’albero venne creato il “Comitato pro pino” che redisse un progetto che prevedeva una grande piazza circolare con al centro l’albero tanto amato.
Purtroppo, però, ufficialmente per “mancanza di fondi” il progetto non fù preso in considerazione e, nel 1907, palazzo e albero furono abbattuti.


 
Stabilimenti esistenti nella zona compresa fra Romagnolo e Acqua dei Corsari, nell’ordine in cui si incontravano uscendo da Palermo:

 
Romagnolo
Risorgimento Italiano (anticamente nello stesso posto vi furono prima lo Stabilimento balneare Margherita e poi lo Stabilimento Elena)
Trieste – Virzì (fondato da Antonino Virzì)
Delizia – Petrucci (fondato da Antonino Petrucci e successivamente gestito dalla vedova Giulia Zunica)

 
Sperone
Trieste – Stella (gestito da uno dei nipoti di Antonino Virzì)
Bagni della Salute (fondati da Angelo Castelli)
Bajamonte (Vito Bajamonte)
Savoia (Bernardo Rizzo)

 
Bandita
Ermini – Sinagra

 
Acqua dei Corsari
Santa Rita
Olimpo (gestito dalla famiglia Nolano)
Bagni Italia

 
3 – continua

 
E’ situata nel Parco della Favorita poco fuori la Riserva di Monte Pellegrino.
Fu realizzata, su commissione di Ferdinado IV di Borbone, da Giuseppe Venanzio Marvuglia
All’origine era una casa, in stile cinese, che Ferdinando IV aveva acquistato dall’avvocato Lombardo.
L’architetto Marvuglia, nella realizzazione della Casina, mantenne lo stile originario.
Il corpo centrale termina in alto con un tetto a pagoda, sorretto da un tamburo ottagonale.
Al piano terreno si trovano porticati ad arco ogivali e nei due fianchi ci sono torrette le cui scale, di forma elicoidale furono realizzate da Giuseppe Patricolo.
Gli appartamenti sono distribuiti su due piani.
Nel seminterrato si trovano la sala da ballo e la saletta delle udienze decorate tutte da Velasquez.
Al primo piano, cui si accede da una scala esterna, si trovano il salone dei ricevimenti, in stile cinese, con pannelli in stoffa dipinti anche dal Riolo, la sala da pranzo, con l’ingegnosa “tavola matematica” del Marvuglia, e la camera da letto del Re con la volta dipinta in stile cinese dal Codardi e dal Velasquez.
Al secondo piano si trovava l’appartamento della Regina Maria Carolina che  aveva annesse due salette di ricevimento e la camera da letto con lo spogliatoio.
All’ultimo livello si trova una grande terrazza di forma ottagonale coperta a pagoda con soffitto decorato dal Silvestri.

 
Fu Giuseppe Carini a creare nel 1844 uno dei primi stabilimenti balneari; era situato vicino il Sammuzzo nei pressi del Castellammare.
Successivamente ne fu creato un altro al Foro Italico proprio di fronte a Porta Felice; era denominato Stabilimento delle Sirene ed era in legno con una terrazza coperta al centro, che fungeva da ritrovo, e due bracci laterali dove erano poste le cabine.
Lungo il Foro Italico vi era anche un altro stabilimento balneare, lo stabilimento dello Sport che, inizialmente si trovava di fronte Villa Giulia e poi fu trasferito di fronte il tempietto della musica nei pressi del notissimo scoglio del grancio.
La zona che però offrì maggiori possibilità di espansione agli stabilimenti fu quella compresa tra piazza Sant’Erasmo e Acqua dei Corsari.
La popolarità che ebbe questo tratto di costa fu dovuta anche alla linee di tram e ferroviaria a scartamento ridotto che da Palermo portava fino a Corleone.
Questi due collegamenti consentirono a numerose famiglie palermitane di riversarsi sulle spiagge favorendo così la proliferazione degli stabilimenti balneari nella zona.

A questi stabilimenti successivamente dedicherò un intero capitolo.

 
2 – continua

 
Finita l’estate vorrei fare un piccolo viaggio nella storia per raccontare i posti dove i palermitani andavano per prendere il sole e fare l’agognato bagno, ormai solo simboli di un tempo anche se a molti sono rimasti impressi nulla memoria.
Già nei tempi andati le più affollate erano le spiagge di cui, per fortuna, Palermo è molto ricca.
Cominciarono a crescere e ad espandersi i primi stabilimenti balneari dove già avvenivano le grandi riunioni anche se, allora, il comportamento dei singoli era sempre corretto, gli uomini stavano lontani dalle donne e non erano ammessi abbigliamenti poco seri.
I costumi erano rigorosamente lunghi e, possibilmente, di colore nero; una sorta di “abito da bagno”.
Alle origini questi stabilimenti furono frequentati, quasi esclusivamente, dall’aristocrazia palermitana.
Verso la fine del ‘700 la regina Maria Carolina aveva l’abitudine di frequentare quella che oggi viene chiamata “bagno della regina”; si tratta di una casina costruita nella riserva reale dell’Arenella.
Successivamente, fu grazie ai Florio che sia l’Acquasanta che l’Arenella rivissero il loro antico splendore.
Grazie a loro nacque il “grande sanatorio di lusso Hygiea Salutis Dea” che oggi è diventato uno degli alberghi più lussuosi di Palermo, “Villa Igea”.
 
1 – continua

 
Tutti conosciamo la Chiesa di Santa Maria allo Spasimo, meglio conosciuta solo come "Lo Spasimo", per lo straordinario spettacolo che offre ogni estate, quando apre le sue porte per le manifestazioni musicali; ma quanti ne conoscono le origini e le vicissitudini che ne hanno scandito la storia con il trascorrere del tempo.
Situata in uno dei più antichi quartieri palermitani, la Kalsa, vide le sue origini nel 1506 quando i padri di Monte Oliveto ricevettero in dono da Giacomo Basilicò, noto esperto del diritto, un appezzamento di terreno affinchè vi costruissero un convento ed una chiesa.
I lavori, cominciati tre anni più tardi, furono dapprima sospesi e poi interrotti del tutto a causa della seria minaccia di un’invasione turca.
Si preferì quindi rivolgere le attenzioni al rafforzamento delle difese della città con la costruzione di una nuova cinta muraria.
Nonostante tutto, la chiesa aveva assunto un ruolo preminente fra i palermitani, e nel 1520 ricevette in dono un quadro dipinto da Raffaello Sanzio che raffigurava la Madonna distrutta dal dolore davanti a Gesù che, durante la Via Crucis, era caduto sotto il peso della croce.
I monaci, però, succesivamente, furono fatti trasferire in quanto, nel 1569, le esigenze militari ne consigliarono l’acquisto da parte del governo.
A seguito di ciò la chiesa fu abbandonata ed il quadro, su iniziativa del vicerè Ferdinando D’Ayala, fu donato a Filippo IV re di Spagna.
Nel 1582 fu trasformato in luogo di spettacoli.
Il secolo dopo fu testimone di un’altra trasformazione del sito.
La peste che colpì la città convinse i governanti a traformarlo in lazzaretto.
Quando l’emergenza cessò si ebbe luogo ad un’altra trasformazione; la chiesa diventò un grande magazzino dove veniva stoccato il grano.
La successiva caduta della volta della navata centrale ne segnò la definitiva fine.
Con il pavimento che ormai raccogliava le macerie dei muri, senza tetto e in completo stato di abbandono, si persero le ultime tracce di quella che era stata una grande chiesa.
Altre trasformazioni furono apportate tra il 1855 e il 1985; dapprima ospizio per i poveri e poi anche nosocomio, con modifiche pure allo stato originario per potere creare strutture atte a ricevere le persone che venivano ricoverate.
Finalmente, nel 1985, furono cominciati i lavori di restauro che hanno portato il luogo nello stato in cui si trova oggi.
 
Le foto dell’album sono tratte da Palermo Blogolandia

La rivolta carbonara


 
Esplose a Palermo il 15 luglio 1820 ad opera di alcuni elementi della Carboneria.
L’allora luogotenente generale, Diego Naselli, non seppe affrontare la rivolta con il giusto rigore; anzi, dopo avere abbandonato nelle mani dei rivoltosi il Castello a mare, fuggì a Napoli.
A quel punto per la città, in piena anarchia, cominciò un periodo di violenze e saccheggi e alcuni galeotti, liberati nel frattempo, massacrarono i principi della Cattolica e di Aci accusati di tradimento.
La giunta che venne formata, con a capo prima il cardinale Pietro Gravina e poi il principe di Villafranca, Giuseppe Alliata, non riuscì però a riportare l’ordine.
Palermo venne, così, isolata sia dalle altre città dell’isola che da Napoli.
Per dimostrare la supremazia sulle altre città isolane furono poi compiute spedizioni che, fra massacri e violenze, cercarono di asservire i vari centri al potere appena stabilito.
Tutto questo portò ad un sempre maggiore isolamento che poi fu anche la causa della fine del moto secessionistico; Napoli poi lo stroncò definitivamente riprendendo il controllo della Sicilia.
Furono le truppe guidate dal generale Florestano Pepe a rimettere ordine, fra altri massacri e atrocità, fin quando il principe di Paternò, Giovan Luigi Moncada, il 5 ottobre 1820, firmò l’accordo con il generale Pepe.

 
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Il più antico insediamento di Palermo di cui si ha notizia ha lasciato le proprie tracce nelle grotte presenti sul Monte Pellegrino nel versante che dà sull’Addaura o, come si chiamava allora "Allaura".
Risalenti a circa 140 secoli fà, i Graffiti sono la rappresentazione grafica che gli abitanti di allora decisero di lasciare per descrivere la vita quotiana.
In tutto le grotte sono cinque e vengono così identificate:
Sezione 1: Cavità "A" (non una vera e propria grotta ma un piccolo anfratto) e "Prima" e "Seconda" Addaura.
Sezione 2: una piccola grotta "B" e la "Terza" Addaura, che viene chiamata anche "Caprara".
La più grande è proprio la "Caprara", così chiamata perchè in epoche successive fu usata anche come stalla.
La "Caprara" oltre che dalla grotta vera e propria, che si presume non sia mai stata abitata dall’uomo, è composta  anche una sorta di "antigrotta" che, purtroppo, è stata svuotata di quasi tutte le tracce archeologiche e quel che rimane è solo qualche fossile ed un dente di "Elephas Melitensin"
I graffiti si trovano sulla parete orientale della grotta "seconda". In essi sono raffigurate trenta figure, diciassette umane e tredici animali.
Gli animali, quasi tutti equini, sono disegnati in stile naturalistico, alcuni trattati con immediatezza e vivacità realistica, altri con disegno più incerto e schematico.
Il più bello di forme è un cavallo senza testa, sottilissimamente graffito al di sotto di un bovide schematizzato, mentre la più completa è una giumenta, col suo puledro disegnato a metà sopra la groppa.
Oltre agli equini la fauna dell’Addaura rappresenta cervidi e bovidi tra cui un agile cerbiatto in corsa, un pesante cervo acefalo e un daino rampante.
Come lo stile, anche la tecnica dell’incisione varia: la maggioranza delle figure sono graffiti sottili, tranne il daino che è disegnato con incisione più profonda, simile a quella della maggior parte delle figure umane.
Queste sono raccolte in composizioni delle quali non sempre si riesce ad afferrare il significato, ma che esprimono senza dubbio un’azione rituale.
Si tratta di tre quadri distinti l’uno vicino all’altro.
Nel più ampio si può vedere una scena composta da due giovani nudi che al centro eseguono acrobazie, circondati da altre sette figure che assistono o danzano.
Tutti i personaggi hanno abbondanti capigliature o maschere rituali a becco d’uccello, cosa che suggerisce un’interpretazione legata ai riti della pubertà o, per alcuni studiosi, un supplizio di prigionieri.
Il secondo quadro più in basso rappresenta un daino rampante e un cacciatore nudo dai lunghi capelli, con una strana maschera sul volto e una lunga asta.
Il terzo quadro comprende tre figure: una femminile con un voluminoso oggetto sulle spalle e due maschili che camminano in senso contrario l’una all’altra.
I graffiti dell’Addaura rappresentano la più alta testimonianza di arte parietale del Paleolitico superiore.

Le Porte – Brevi cenni storici


 
Porta S. Agata
La porta nasce in periodo normanno ed il nome deriva dalla limitrofa Chiesa di S. Agata alla Pedata.
E’ situata all’inizio dell’odierno corso Tukory.
 
Porta Montalto
Fu fatta costruire nel 1537 dal vicerè Luigi Moncada, Duca di Montalto, in sostituzione della già esistente Porta di Mazzara e prese il nome dallo stesso vicerè.
E’ situata alla fine di corso Tukory.
 
Porta di Castro
La porta venne edificata nel 1620 in sostituzione di una precedente porta che era stata chiusa nel 1460, chiamata Porta del Palazzo.
La costruzione si rese necessaria per consentire la continuazione di via dei Tedeschi dove risiedevano le guardie tedesche del vicerè.
Per la costruzione della porta venne abbattuta una chiesa chiamata Chiesa di S. Maria dell’Itria, che occupava parte della strada.
L’arcivescovo diede l’approvazione a patto che venisse costrutita una nuova chiesa a poca distanza dalla stessa.
La porta fu distrutta nel XIX secolo per allargare la via e far posto ad abitazioni.
Della porta rimase solo il nome in quanto la vecchia via dei Tedeschi cambiò nome assumendo quello di via Porta di Castro.
 
Porta Nuova
Venne costruita nel 1669 a cura dell’architetto Gaspare Guercio in sostituzione della già esistente Porta dell’Aquila.
Adiacente al Palazzo dei Normanni, è stata per secoli il più importante accesso a Palermo via terra. Da essa partono il Corso Vittorio Emanuele, la principale arteria cittadina e, all’esterno, la strada verso Monreale.
 
Porta d’Ossuna
Fu fatta costruire nel 1613 dal vicerè Pietro Duca d’Ossuna in sostituzione di quella esisteste chiamata Porta Rota.
Si trovava nei pressi dell’attuale via d’Ossuna.
 
 

(2 – continua)