Category: Urla



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Silenzio


 
Silenzio!
 
 

Siamo alle solite


 
In questi giorni stiamo assistendo alle solite lamentele per le spese sostenute dal Comune di Palermo per le luminarie natalizie.
Vero che la città non sta attraversando un periodo molto positivo, ma negare ai cittadini e ai turisti le bellezze delle luminarie, di un albero di natale addobbato e di una città vestita a festa non sarebbe stata una cosa positiva.
La città sarebbe stata considerata insensibile a quelle che in ognuno di noi, qualunque sia il colore politico o la fede religiosa, sono considerate le “FESTE” e vederla al buio e senza nessuna dimostrazione di vitalità avrebbe contribuito a rendere questo periodo, ripeto molto brutto, ancora peggio di quello che in realtà è.
Ben vengano, quindi, l’albero, le luci, gli addobbi, ci sentiremo tutti un pò più vivi e “ricchi”.

Anche questa è Palermo


 

Le catene della vergogna – La storia di Calogero e del fratello disabile
 
Trovato per caso sul web, storia vera e toccante scritta da Giuseppe Di Bella su "SiciliaInformazioni" del 27/28 febbraio del 2008.
Io mi sono commosso nel leggerla; non è mia abitudine postare racconti lunghi ma questa storia merita di essere riportata per intero per cui la copia è integrale.
Grazie Giuseppe
 
Nel 1965 frequentavo la terza elementare. Il mio compagno di banco era Calogero: piccolo di statura, capelli rosso scuro e una miriade di lentiggini. Le mani callose e dure come pietre, coperte di geloni color piombo, ormai cronicizzati. I compagni di classe poveri erano tanti.
Il boom economico non aveva raggiunto tutti. Ai margini del crescente benessere, un vasto proletariato stentava ancora a mettere insieme il pranzo con la cena, e non è un modo di dire. Il disagio sociale era ancora tale che, sia pure in modo saltuario, a scuola veniva distribuita la “refezione”. Naturalmente i bambini che non appartenevano alle famiglie povere, erano esclusi dalla somministrazione.
La refezione consisteva alternativamente in: Panino con lo sgombro, Panino con la cotognata (quella nelle cartine di plastica trasparente);  piatto di minestra con fagioli o lenticchie; una mela, un’arancia o due mandarini.
Per i bambini che non ricevevano tale beneficio, sentire gli odori e veder mangiare gli altri, era comunque un supplizio di Tantalo, certo una sciocchezza al confronto della fame che i compagni così si strappavano di dosso.
Non avevo ancora i mezzi mentali per capire veramente la povertà, i suoi tragici contorni, i suoi spettri. Molte delle Persone e delle situazioni fissate nei ricordi, le comprendiamo veramente solo negli anni della maturità: come fantasmi riaffiorano dall’acqua immobile, profonda e scura del pozzo del passato.
Con noi cresce la capacità di gestire le emozioni ed il dolore: gli anni diventano un antidoto a veleni potenti. Non ho mai raccontato questa storia. A Calogero toccava la refezione perché era un bambino poverissimo: lo si capiva semplicemente guardandolo perché gli mancava tutto, dalla penna ai vestiti, che erano sempre uguali. Anche d’Inverno veniva a scuola con i sandali aperti e senza calzini. Arrivava a scuola puntuale e odorava di latte. Era di una bontà naturale.
Aveva un’espressione spaurita: sembrava spaventato dalla vita e non capivo perché. Non possedeva le piccole e le grandi ricchezze dei bambini: né biglie di vetro colorate, né figurine dei calciatori, né soldatini (quelli che si trovavano nelle scatole del detersivo TIDE), né la spensieratezza, né la speranza negli occhi. Nulla.Solo una volta arrivò a scuola con un mazzetto di figurine di Tarzan, quelle americane a colori con i fotogrammi del film e le foto degli attori.
La donna pantera, Cita, la donna leopardo. Arrivavano dagli Stati Uniti, ben sistemate dentro cassettine di legno, ed ogni confezione di dieci figurine era chiusa da una striscia di velina rosa.Quel giorno, alla fine delle lezioni regalò tutte le figurine a me e ad altri compagni. Mi disse che non sapeva giocare.Un giorno lo invitai a fare i compiti a casa mia, ma rifiutò e mi chiese di andare io a casa sua.
Mi spiegò il percorso minuziosamente. Attraversai tutto Vicolo Zisa, poi inforcai Via alla Grotta Danisinni che dopo un largo cortile ed un arco, si trasformava in una scala in pietra scura, che portava giù alla depressione detta appunto Piazza Danisinni, antico alveo del paludoso fiume Papireto.Mi fermai in cima alle scale, respirai a fondo: non conoscevo quest’angolo della città.
C’era un bel colpo d’occhio, una lunga prospettiva: la parte centrale della piazza era quasi completamente coperta da cipolle stese a terra ad asciugare, che nel sole alto del primo pomeriggio non proiettavano ombre, ma riflettevano un vivido colore dorato.
Lontano, si stagliava contro il tufo giallo l’ombra dei carretti che riposavano muti con le braccia tese al cielo; oltre gli asini legati con grosse corde agli anelli infissi nella pietra: dondolavano la coda per scacciare le mosche moleste. Uno scheletrico cane nero ciondolava incontro a tutti, sperando in una carezza che gli era negata.
D’un tratto la mia attenzione venne catturata da un bimbo di quattro o cinque anni che trascinava una sedia: giunto accanto alla madre, che seduta in piazza lavorava a maglia, posizionò la sedia e si accostò al seno che questa gli porgeva e reclinata la testa verso il suo braccio, cominciò a suggere il latte.
Più tardi seppi che il prolungamento dell’allattamento era utilizzato come tentativo di un metodo anti-concezionale, di dubbia efficacia direi, a giudicare dagli eserciti di figli che a quei tempi sbucavano da ogni dove. Discesi piano tutti i gradini e cominciai a cercare la casa descritta. Bussai piano, poi più forte, Calogero aprì la porta: aveva gli occhi rossi. Mi fece entrare.
Tre fratellini più piccoli, fecero capolino a scaletta da una tenda dai fiori stanchi, dietro la quale s’intravedeva il letto matrimoniale. Sorridevano, ma i denti mancanti erano più dei presenti.
Questo primo ambiente era una stanza buia col tetto in legno; pochi e poverissimi gli arredi: solo una piccola lampadina pendeva dal tetto e la sua fioca luce non andava lontano. Mosso qualche incerto passo verso l’interno, mi accorsi che il resto della casa era…una grotta … oscura, profonda.
Gli chiesi piano perché avesse pianto. Non rispose. Mi fece cenno di seguirlo in fondo alla grotta, su per una scaletta che portava ad un soppalco.
Quando arrivai al piano, non compresi subito l’immagine che avevo innanzi agli occhi: non riconoscevo le forme né la situazione.
In un angolo in penombra giaceva disteso a terra su un fianco, avvolto in una coperta lacera, un ragazzino di 12 o 13 anni.
Aveva le catene ai polsi e alle caviglie, e queste erano legate ad un’altra catena fissata al muro.
Istintivamente cercai di avvicinarmi: Calogero mi fermò tenendomi per un braccio.
Il ragazzo era affetto da una gravissima minorazione fisica e mentale: era magrissimo, diafano. Sussurrava in modo ossessivo la parola “mamma”, dondolando senza requie la testa.
Non sembrava spaventato o aggressivo, ma sospeso, estraneo al tempo e al luogo, prigioniero di quel desiderio della madre, di un anelito inappagato più che delle catene che lo legavano.
Chiesi a Calogero perché il fratello fosse incatenato. Mi raccontò con un filo di voce che il padre era carrettiere e che usciva da casa alle cinque e tornava la sera tardi.
La madre andava a servizio di mattina e di sera, e così non potevano fare altro che incatenarlo (“ci mentunu i cippi” mi disse), perché era incontrollabile e quando non riusciva a comunicare, diventava violento e pericoloso per i fratellini e per se stesso.
Lo liberavano solo quando erano in casa i genitori e allora lui si rannicchiava in grembo alla mamma e li rimaneva. Mi disse ancora che non era mai uscito da casa perché i suoi genitori si vergognavano.
Mi raccontò, come per liberarsi in qualche modo da un macigno che aveva sull’anima, da un peso insopportabile, che doveva badare ai tre piccoli, alzarsi alle quattro come i genitori.
Aiutare il padre a caricare il carretto e la madre negli altri lavori di casa; vestire i fratellini, andare a scuola e poi i compiti, accudire il fratello impedito, in attesa del ritorno della madre.
E ancora la sera aspettare il padre per aiutarlo a scaricare il carretto, spaiare l’asino e governarlo.
Mi chiese di non dire niente a nessuno: di tenere il segreto.
Lui piangeva perché non sapeva come aiutarlo; piangeva perché questa vita era più grande dei suoi otto anni, dell’infanzia che gli veniva rubata.
Compresi così perché Calogero non sapeva giocare e la sua paura della vita. Perché il riflesso dell’iride era opaco, velato come quello di un vecchio.
“Ci mentunu i cippi” ripetevo nella mente tornando a casa; solo una lacrima solcò la guancia: la gettai via col dorso della mano … lontano. Sentivo freddo e avevo la bocca amara del fiele della vita.
Qualche anno dopo venni a conoscenza di alcune vicende simili, in cui “i cippi”, ancora negli anni sessanta, venivano usati in alcune famiglie disagiate, come mezzo di costrizione (non direi di correzione) di bambini turbolenti.
Per tutelare la riservatezza delle Persone citate, ho cambiato i nomi e tutti i riferimenti che possano ricondurre ai veri protagonisti di questa vicenda.
La povertà e l’ignoranza sono catene invisibili ma difficili da spezzare.
In quegli anni accadeva che la presenza di un bambino handicappato fosse vissuta come una vergogna, come un castigo divino: talvolta questo sentimento era così forte che più che ad assisterli si tendeva a nasconderli, a farli sparire: presenze eteree di cui disperdere anche il ricordo.
In molti casi, a prescinde dalla vergogna o meno, l’assistenza familiare prestata a chi è stato così sfortunato, ha rasentato “le virtù eroiche” che santificano l’esistenza dell’uomo: mamme e padri che hanno sacrificato l’intera vita alla cura di un figlio malato. Un valore etico assoluto.
Due anni dopo, una mattina di Primavera, Calogero mi disse che il fratello era morto. Teneva il capo chino sul quaderno di matematica e le lacrime scioglievano l’inchiostro fresco: dissolvevano a caso i segni poco vergati del più e del meno, così come fa la vita.
Dopo le scuole elementari, non ho più rivisto il mio amico. Di tanto in tanto mi piace pensarlo felice, sperando che la vita gli abbia saldato il debito, gli abbia reso giustizia, come merita.

Forza, Palermo!


 
Forse esagero, ma sono veramente fiero di mio nipote/figlioccio.
Direte che con il blog non c’entra per niente, ma anche Sergio appartiene alla Palermo di oggi, di quella parte della città che vuole farsi conoscere non per fatti criminosi ma per  la pulizia che ha dentro e che vuole gridare al mondo che Palermo non è solo quella che dà una cattiva immagine di sè stessa.
Lui ci sta riuscendo e alla grande pure.
Grazie di esistere!
Il post è scritto in verde come la speranza che abbiamo, nonostante tutto, nel credere che possano crescere tanti ragazzi come lui.
Forza, Palermo (intesa come città, la squadra di calcio và già forte di suo) continua a rialzarti.
Certamente hai già fatto tantissimo, ancora manca molto, ma sono sicuro che sarai capace di ritornare ai fasti che ti furono tanto cari e che ti fecero diventare il gioiello che ancora oggi nascondi dentro di te.